Nel cuore verde della Mongolia si trova il regno dei cavalli bradi takhi, la razza autoctona estinta più di 40 anni fa e riportata nelle praterie della Mongolia recentemente: é l’equus ferus przewalskij,
un cavallo mai addomesticato, che insieme all’equus caballus, sono le due specie equine da cui derivano tutte le altre. Il cavallo fu addomesticato circa 6000 anni fa. Cavallo e lupo sono gli animali totemici per eccellenza del popolo mongolo.E’ da poco passata l’alba quando affrontiamo l’enorme distesa stepposa di un verde irreale per conoscere il famoso cavallo przewalskij dal nome del suo scopritore. Nel tragitto verso il parco vediamo tanti cavalli, sono eleganti, fieri con le criniere percorse dal vento: ma non sono i przewalskij. Nel suo libro “Il dono” lo scrittore V.Nabokov ci racconta in modo accorato e affettuoso uno stralcio di vita dello scienziato Nikolaj Przevalskij, “spacciandolo” per suo padre. Questo racconto ripreso da Stefano Malatesta ne “Il grande Mare di Sabbia” ci ripresenta l’esploratore rimarcando l’affetto di Nabokov per il padre, rivelandoci la vera identità di quel padre amico dello studioso, ricercatore di un oriente sconosciuto, isolato in una solitudine individuale votata alla conoscenza di luoghi lontani da cui sono arrivate in Europa e in Cina per tutto il XIII e XVI secoli, ondate di conquiste imprevedibili e distruttive che hanno cambiato i connotati della nostra “civiltà” da allora costretta a confrontarsi con quel mondo diverso ma non qualunque. Il senso di patria dell’ufficiale cosacco N. Przevalskij é evidenziato dal suo procedere sempre in divisa, mentre gli inglesi, altri coraggiosi esploratori, si sono sempre “camuffati” nelle vesti del paese da loro studiato (vedi Laurence d’Arabia). Mongolia, il Naadam l’Olimpiade dei nomadi
Lungo il percorso incontriamo enormi greggi di pecore e capre fluttuanti, guidati da pastori a cavallo. Gli elementi del Soyambo, lo storico emblema sulla bandiera della Mongolia, sono riscontrabili negli antichi marchi del bestiame, tuttora in uso. Le pecore che incontriamo sono assai diverse dalle nostre, hanno le code grasse gonfie di lanolina. Ma eccoli i selvaggi equus ferus przewalskij sono piccoli come pony, tozzi e muscolosi hanno il manto chiaro dorato, le zampe scure come il muso, il ventre gonfio, vivono sparsi in una zona arborea fresca dalle erbe piuttosto alte di cui molte medicinali. Sembrerà strano ma di questo cavallo erano sopravvissuti alcuni esemplari negli zoo europei, in patria erano diventati cibo per la sopravvivenza. Grazie alla fondazione olandese della difesa del cavallo przewalskij furono trasferiti negli anni ’90 del secolo scorso 16 esemplari nella loro patria d’origine. Con il ripopolamento sono diventati 300 tutti monitorati. Si stima siano 170 gli esemplari nati in loco. Naturalmente il parco nazionale è ricco di molti altri animali selvatici come uccelli di 161 specie, lupi, volpi, cervi, marmotte. Il piccolo museo del sito illustra la flora e la fauna di questo interessante parco nazionale.
C’è ancora qualcosa da scoprire che non finisce di stupirci. Abbandonati nella steppa tra cielo e montagne azzurre all’orizzonte, s’incontrano nella steppa ai bordi del parco goffi uomini di pietra e arieti degli Ungut, sono del VI-VIII sec.d.C. Si tratta di una popolazione turca che ha eretto queste sepolture ai suoi condottieri più illustri. In un’altra zona più lontana sembrano abbandonati a se stessi più di 700 monoliti di pietra alti da due a quattro metri risalenti al XII secolo a.C. eretti fino alla fine dell’età del bronzo nel VII secolo a.C. Sono le lapidi di camere mortuarie sciamaniche che celavano crani di cavalli sacrificati, mascherati da cervi con finte corna di legno. Le corna dei cervi simili a rami d’albero rappresentavano un riferimento vegetale con la terra. Le pietre sono conficcate in punti cosmici riconoscibili su un vasto territorio. Rappresentano gli spiriti totemici di antichi cavalieri nomadi in contatto con l’aldilà, mentre i cavalli camuffati dovevano confondere gli spiriti maligni sempre in agguato. L’archeologo Jerome Magail del museo di antropologia del Principato di Monaco ha dato quest’interpretazione degli interessanti reperti venuti alla luce.
All’imbrunire tornando verso il campo tendato percorrendo a ritroso quel brullo paesaggio senza alberi vediamo proiettate le ombre delle donne che mungono le capre e le pecore legate in fila per le zampe, la corda ancorata a due pali laterali: scorrono dall’una all’altra spostando lo sgabello. Ci fermiamo ad assistere a quell’ingegnosa pratica. Proseguendo c’immergiamo nella tavolozza di verdi solcati da striature cobalto, un incanto che ci accompagna fino all’accampamento. (testi e foto di Gabriella Pittari) Mongolia un viaggio nell'infinito Mongolia, Karakorum la capitale dell’Impero