Essere Terra, viaggio verso l'Afghanistan di Lorenzo Merlo

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Con lo sguardo alla fotografia di copertina del libro, sicuramente quando penserò all’Afganistan (forse anche per visitarlo un giorno) per volerne comprendere meglio la sua realtà, vedrò sempre con la mente questo volto e lo andrò a cercare nelle pagine del volume: Essere Terra, viaggio verso l’Afghanistan di Lorenzo Merlo, Prospero Editore.

Troverò nelle ruvide rughe della fronte e del contorno degli occhi di quel volto vivido, il premio lasciato da assolati giorni faticosi e da inverni rigidi, da giorni tormentati di guerra continua, dall’accumulo di situazioni difficili che la Storia ha sempre elargito, dalla difficoltà di sopravvivere nelle condizioni non volute, non cercate e che altri nel tempo hanno costruito ed imposto. Leggerò in quelle pieghe la sopravvivenza difficile con i limitatissimi beni a disposizione, strappati con  ostinazione alla terra o barattati al mercato, occhi che hanno visto di tutto ma che non hanno pianto per disperazione. Capirò un viso di uomo essenziale che mantiene la fierezza, la voglia di essere quello che è, di non essere cambiato o addomesticato da altri, che vorrebbe essere lasciato vivere in pace.

“In bocca e negli occhi sentivo il sapore della vita”.

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Un libro di non semplice lettura, non di svago, ma di approfondimento e di introspezione, quello che invito a leggere. Un racconto di viaggio verso la conoscenza di un paesaggio, cantato altre volte da occidentali sedotti dal fascino che esso provoca, dall’avventura a cui ti chiama, dai pericoli a cui espone. Esprimo un commento su questo Essere terra di Lorenzo Merlo, dall’ esperienza che mi ritrovo  per aver letto quello che ho letto, scritto quello che ho scritto, viaggiato quello che ho viaggiato, affermando di non aver mai provato tante emozioni nella lettura di altri libri come in compagnia di questo. Scorrevo con gli occhi le righe delle pagine in attesa di soffermarmi e sottolineare la frase che mi colpiva. Ed ero spesso fermo, a rileggere per possedere intimamente, quello che l’autore vedeva o provava. Diventa vita la parola, il soggetto inanimato comunica, ogni particolare descritto si vivifica.

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Essere Terra “mostra un’Asia sofferente e lacerata”. Il lettore percepisce l’ansietà primitiva dell’autore per poi accorgersi che questa agitazione si stempera lungo il viaggio per divenire accettazione, adattamento, e infine amore per una terra islamica. Se la meta è importante, ancor più lo è per il viaggiatore giornalista, esperimentare incontri, pericolosi e difficili, gestendoli con caparbietà e senza timori; leggere scenari, appassionarsi a paesaggi, e rincuorarsi quando finalmente l’Afghanistan, sotto le ruote del suo Defender, è dentro l’anima a calmare la sua inquietudine e riempire la mente per la concretizzazione del suo sogno. Si placano i “pensieri come meteore (che) senza controllo giungevano silenziosi, brucianti”.

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Un tragitto studiato e sognato attraverso le pagine di grandi che prima di lui lo avevano già affrontato. Famose biografie lo avevano entusiasmato e ora attraverso quelle pagine percorre la propria strada ostinatamente e, raggiungendo le mete descritte dagli altri, cerca l’incontro con chi l’ha preceduto. Annemarie Schwarzenbach, Ella Maillart, Nicholas Bouvier e altri sono con lui lungo il sentiero e l’incontro, cercato e trovato, è spesso suggestivo, talvolta insoddisfacente, mai deludente. Quasi da subito, la decisione di lasciare il compagno di viaggio e continuare da solo, gli restituisce energia morale, gli sembra di non essere più disturbato nei suoi pensieri, nelle prove della vita nuova. Recupera il cambiamento di umore, “vergine, improvvisando alzavo il rischio di meravigliarmi”. Nei chilometri di beatitudine, abbandona quel “modo presuntuoso ritenuto necessario per conoscere il mondo davvero”. Supera burocrazie, intrighi , smarrimento di documenti e approvvigionamenti di ricambi. Prova “cosa significa sentirsi perduti ed estranei”. 

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Prosegue l’avventura e riempie di bellezza i suoi pensieri: “vedevo bellezza, andavo da lei”, “non c’era nessuno, mi sentivo bene” e nell’avanzare verso le cose, queste diventano solo sue. Ad esse consegna il linguaggio umano: “il vento freddo fruga” “il serbatoio dell’acquedotto sorveglia” “I macigni scolpiti, presidiano con immobile saggezza” “La sera aveva il respiro della pace” “Il sole già in posizione di combattimento” “il vento in pace con le montagne” “La strada orlava il lago con affetto” “Il sole aveva forato l’atmosfera gassosa, la sua mano implacabile spargeva semi roventi sulla terra” “Sporadiche pareti rocciose interrompevano la ola della moltitudine di conifere”. I fenomeni naturali diventano esseri viventi. Un viaggio pervaso di estasiate visioni, realtà uniche. L’autore va oltre la parola, va incontro al lettore con la poesia per accompagnarlo verso ciò che sta vedendo o vivendo. Ogni pagina diventa un tuffo nella migliore letteratura. E quando la parola è insufficiente, magistrali metafore letterarie trasformano la realtà in poesia. Ed è proprio così che la sensibilità del lettore si accomuna con la poetica, penetrante e incisiva, della descrizione.  La narrazione di Lorenzo Merlo esce come lava rovente per bruciare e rinnovare letterariamente ogni precedente concetto verso il territorio attraversato. Lava che si intiepidisce allorquando, nell’intimità, l’autore affida alla pagina autentica poesia. Quello che canta è “territorio di valli e montagne dove alle regole della storia non è ancora concesso il tempo per cambiare”.

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Attraversando i diversi Paesi ne espone la Storia, passata e presente, con il ritmo di una scrittura realistica e veritiera passando in esame sentimenti e atrocità, amori e coltelli, villaggi e paesaggi intrisi di fascino e di malìe, come solo un vero viaggiatore scrittore sa scovare. Viaggia dentro se stesso con il candore che gli fa cogliere, sì, l’intimità di ogni filo d’erba, ma sa sollecitare i sensi del lettore descrivendo ogni punto geografico con raffinata disincantata essenzialità. Si commuove davanti a bellezze lasciate dai secoli, più o meno intatte, e davanti al monastero di Sumela, dichiara “sembra costruito per me”.  Al minareto di Jam “Il chiodo di dio, audace, avanza nella storia per sorprendere chi ha voluto andarlo a vederlo. Ero il solo a vivere la felicità di quella scoperta”. Era entrato nelle cose, si preparava ad essere terra. “Divenne chiaro come tutta quella terra fosse anche mia. Anzi ad essa appartenevo”.

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Si era tuffato nel Mar Nero “per sentire decantare nella carne ciò che fino ad allora non era stato che un nome e un’idea”, e nelle acque del Lago Van invidiò “due ragazzi che nuotavano e si schizzavano. Non sapevano di essere camei di un paesaggio di imprendibile bellezza, nel quale volteggiavano come dèi giocosi”. Grande osservatore descrive con purezza di particolari e (menziono per il tutto le botteghe artigiane di  Herat) dove ogni singolo personaggio esce con l’incanto di una scultura vivente. “Vissi l’impressione di essere con loro”. Il viaggio, normalmente nello spazio, si trasferisce nel tempo, e nell’intimo. Quando pensi che l’autore abbia già espresso tutto, sei solo all’inizio. Continua a sorprenderti; ti fa largo accanto a lui sul sedile del Defender per trascinarti lungo gli aspri sentieri, vedi la polvere e senti le buche, sobbalzi nella lenta avanzata, nella prova dei pericoli nascosti e con lui li superi con accortezza ed audacia. “Attraversare la frontiera non era stato solo bucare un ipotetico diaframma nero, prima di ostilità avevo incontrato sorrisi e disponibilità”.

dal web Latitudes

Succede anche a lui: gli vengono a mancare calma, riposo, prontezza di spirito.  Gli si aprono i dubbi sul viaggio. Non è il cosa ci faccio io qui, ma il più impegnativo “Avevo dentro un sentimento contrario a quello che mi aveva spinto là. Basta poesia solo cenci di cui volersi liberare. Urla e pianti da cui fuggire”. “Guidavo adagio…come stessi lasciando il mondo come se l’iniziazione si stesse finalmente compiendo”.  

E’ terra l’autore, diviene terra leggendo, anche il lettore.    IL LIBRO CITATO LO TROVI QUI

fernando da re samarcanda

PS: prima di uscire dal suo Afghanistan, Lorenzo Merlo regala una frase che mi commuove. Riassume in un istante la sua acuta visione del mondo, del territorio, della caducità del tempo, degli errori degli adulti, del futuro lasciato ai piccoli, della speranza di un nuovo futuro. La frase è questa: “La carcassa di un camion sovietico, integrato al terreno, resisteva alla ruggine e alle prodezze dei bimbi come un nonno che non si cura degli scherzi infantili”. Chiuso il libro, rimane ancora viva la visione.