Istanbul della gente
(seconda parte)
Continuiamo il nostro giro alla scoperta dell’antica Bisanzio-Costantinopoli.
Costantino, all’atto della fondazione della città nel 330, pose al centro dell’ippodromo romano un obelisco egizio, una colonna greca e una romana. Con questi simboli intendeva esprimere il senso di continuità della storia e dell’evolversi delle civiltà. L’ippodromo, era il luogo di svago dato al popolo dai regnanti (panem et circense), era lo stadio d’epoca in cui la folla sfogava il suo bisogno di violenza. Si tramanda il terribile episodio di uno scontro tra squadre di bighe rivali degenerato in rivolta, che nel 532 d.C. causò la morte di 30 mila persone e la distruzione di gran parte della città. Altro che gli stadi dei nostri giorni! Nei pressi dell’ippodromo sorgeva un’altra colonna, in cima aveva quattro cavalli, quelli che a un certo punto della storia, sono “volati” a Venezia sul leone alato di San Marco per posarsi definitivamente sulla balconata della Basilica del Santo. Costantinopoli città mercantile crocevia di strade tra oriente e occidente, era lo scalo privilegiato di Venezia e crocevia di commerci internazionali.
Esploriamo ora Topkapi, la città privata dei sultani all’interno della città pubblica, non così razionale come la città proibita di Pechino, ma altrettanto misteriosa. Topkapi, il serraglio, é la testimonianza della libertà tradita di quel popolo nomade, la ricostruzione ideale di un enorme accampamento, un’inconscia rappresentazione teatrale di quel popolo ormai da tempo sedentarizzato. Il diverso modo dei turchi di concepire il sociale ha favorito la struttura a edifici sparsi, tra giardini fioriti, odorosi d’essenze sensuali, tra carnose piante esotiche che favoriscono la pigrizia, in netto contrasto con Il mondo desertico forzatamente dinamico.
La spregiudicatezza e la libertà religiosa dei turchi ha permesso che i capricci dei regnanti si sfogassero soprattutto con le donne. Ora che Topkapi è un museo, si “penetra“ nell’inviolabilità dell’harem, dove ad ogni cambio di sultano, senza scandalo e in gran silenzio, si perpetrava una strage d’innocenti, per salvare quell’unico figlio destinato al trono, tolto a bellissime schiave (in prevalenza circasse) acquistate sui mercati d’oriente, diventate “regine” grazie a quel figlio maschio destinato ad essere sultano. Una di quelle schiave ci ha lanciato un terribile grido di dolore:
Sono una donna dell’harem,
una schiava ottomana,
concepita in un atto di sprezzante violenza
nata in un sontuoso palazzo.
La sabbia calda è mio padre,
il Bosforo mia madre;
la saggezza il mio destino,
l’ignoranza la mia condanna.
Posseggo schiavi e sono schiava.
Esposti nelle vetrine dei padiglioni di Topkapi vediamo tessuti e gioie di gran classe, ceramiche e oggetti di valore inestimabile, quelli che i mercanti vendevano alle annoiate schiave sorvegliate dagli eunuchi neri.
Girare per la città è una continua scoperta. In piazza Taksim è come essere in Europa, ma è una sensazione che dura poco, all’improvviso ci ritroviamo in una realtà diversa, incontriamo le bancarelle della frutta, vediamo le vecchie case di legno, i piccoli cimiteri islamici colmi di lapidi inturbantate, dove filtrano languidi raggi di sole smorzati dai rampicanti, le cui intricate radici incatenano lapidi mortuarie di persone amate, diventate sconosciute. Le narici sono sopraffatte dagli effluvi si cerca di inseguire il profumo sfacciato dei gelsomini, degli ibischi, i cui fiori a tinte forti, superano i recinti dei giardini. Le orecchie percepiscono il canto degli uccelli, lo stridore delle cicale, il gorgoglio dell’acqua nelle fontane: quell’acqua tanto mancata al popolo del deserto.
La modernità ha portato un ordine nuovo, un ordine “straniero”, una pulizia che a volte stride con la sensualità dei luoghi. Gli abitanti della Turchia inseguono il presente, vogliono New York, i minareti si confondono tra i grattacieli. Istanbul resterà se stessa se gli shopping center non si sostituiranno ai parchi pubblici e ai magnifici bazar e se i nuovi emiri smetteranno di costruire regge private nei parchi nazionali. (Foto e testi di G. Pittari)