Trovandomi davanti a questo soggetto, prima di fotografarlo, pensai di andare a parlare con l’artista.
Alcuni scalini più sopraelevati delle centinaia già calpestati, mi condussero ad un cortiletto. La porta era aperta, lo studio era all’interno di quella porta. Avevo la percezione di un felice incontro. Sentivo l’odore dei colori, i pennelli e i soggetti rappresentati mi ricordavano un amico.
Qui a Chefchaouen (Marocco) si parla spagnolo da tempo, da quando la comunità di arabi andalusi furono cacciati e deportati in terra marocchina nella seconda metà del 1400 in un villaggio isolato e desolato a circa 600 metri di altitudine. All’interno dello studio, alzai la voce invitando qualcuno ad una risposta. “¿No hay nadie?” Solo le ballerine si voltarono per osservarmi. L’unico rumore fu lo scricchiolio di un tubetto di colore, esausto ed essiccato, che calpestai inavvertitamente.
Chiesi scusa alla pianista e restai ad ascoltare la sua musica per alcuni istanti. Ipotizzai che l’artista sarebbe comparso di lì a poco. Lo spazio ristretto oltre le minute pareti tappezzate di tele e di cartoni abbozzati non si poteva dilatare e da nessun pertugio sarebbe potuta uscire una persona.
Senza risposta, invocai allora l’amico lontano che mi spiegasse perché fosse presente qui a Chefchaouen. Il dono della sua ubiquità, già in altre occasioni manifestato, ancora una volta mi afferrò. Mi stringeva la mano e mi spingeva a scoprire proprio se stesso. Mi portò sul banco dei colori impastati, toccai i suoi pennelli usati, evitai con attenzione i residui essiccati sul pavimento, e pensavo di leggere il suo nome sui cartoni abbozzati appoggiati ovunque. Il pittore di Chefchaouen non si presentò, non seppi così il suo nome, ma tu eri con me, caro amico Giancarlo. O forse era solo un desiderio per sentirti raccontare. E quella porta non si chiude mai.
Grazie alla collaborazione del viaggio a Agenzia 15viaggi.it