Colin Thubron
Il cuore perduto dell'Asia
L’anno successivo al collasso dell’Unione Sovietica, l’autore Colin Thubron varca i confini...
...degli stati divenuti sovrani e non più dipendenti, totalmente, da Mosca. Turkmenistan, Uzbekistan, Kirgizstan, Tagikistan e il vasto Kasakistan. Paesi che fanno parte dell’Asia centrale, un cuore, che batte da solo ormai, ma con le tracce residuali di grandi difetti, di ferite in parte non ancora cicatrizzate, difficili da guarire nel breve periodo. Molti e disomogenei sono i pensieri che attraversano le menti degli abitanti di questi Paesi, come diversi sono gli atteggiamenti che stanno mutando il loro comportamento: a guisa di una lotta per la ricerca di nuove identità culturali e la sensazione di povertà per l’abbandono di una economia, quasi di sussistenza, che aveva garantito loro una sopravvivenza. Non più abituati a ragionare in proprio, all’alba di una nuova libertà, i cittadini stentano a trovare corrette collocazioni mentali e trovano il modo di ragionare con l’autore su tutto. Emerge anche il desiderio da parte di queste popolazioni non più nomadi di conoscere, di approfondire e di raccontarsi all’interlocutore straniero. Un modo per scaricare finalmente tensioni e confessare aspirazioni celate e colpe commesse. Il libro traccia in parte le sorti dell’Homo Sovieticus, stereotipo sovranazionale che aveva schiacciato la cultura di questi popoli. Spesso, i popoli, si manifestavano “con quelle facce slave che si accendono di languida tristezza paradossalmente contagiosa” e l’autore cerca di spiegarne le sfumature interrogando (dolcemente senza destare sospetti) interlocutori in transito. Saranno le manifestazioni ideologiche vecchie e nuove a venire a galla e spesso gli occhi che incontra sono “privi di sogni”.
Sognano maggiormente gli allievi delle madrasse, che vedono liberazione e futuro nello studio della religione, ma che ogni loro pensiero si confonde con il ragionamento; la loro sicurezza ideologica vacilla e frana nel confronto verbale. Sparite nottetempo con le statue di Lenin anche le ideologie forzate, non resta ai nuovi cittadini che l’incontro con una realtà, sbrecciata e dura, come il piedistallo del monumento a cui era legata l’ideologia della loro sicurezza. Interpretare alla nuova luce le precedenti campagne di regime mirate alla produzione e all’aumento della manodopera può rivelarsi compito ingrato: quella del cotone in particolare. Il vecchio operaio, che ha sempre lavorato e ora si ritrova a pensare liberamente, può accusare il regime di ieri che ha piantato solo cotone, accorgendosi ora che non “si può mangiare col cotone. Lo si può solo vendere in cambio di rubli e non si possono nemmeno mangiare i soldi”. Cosi lo scrittore, il giornalista, il poeta che potrebbero liberamente mettere nero su bianco ogni loro opinione, non hanno fogli di carta ove vergare le loro nuove idee. E girando e rigirando tra i pensieri dei molti incontrati e intervistati fioriscono problemi sempre diversi la soluzione dei quali sta forse nella saggezza della vecchia - il suo naso era un mozzicone girato all’insù, ma su di esso scorsi una materna ed eccentrica benevolenza – e che l’autore incontra ai confini con la Cina: “Nessuno che cammini su questa terra non ha mai fatto errori. Ma è una buona cosa che la vecchia Unione si sia divisa. Era finita comunque. E ora questi piccoli stati devono reggersi sulle proprie gambe. Dovranno crescere! Dovranno lavorare! Che ogni nazione possegga la terra, e che ogni persona ne possegga un pezzettino! Allora si sentiranno responsabili”. Perdendo la loro balia sarebbero stati costretti a crescere. (fine prima parte) Testi e foto di Fernando Da Re