La Monument Valley è uno splendido e suggestivo pianoro fluviale, il regno dei navajo al confine tra Utah e Arizona.
La strada che l’attraversa segue un percorso in leggera pendenza che crea nel viaggiatore l’impressione di precipitare nell’Inferno di rocce rosse, la Deth Valley (Valle della Morte) con pinnacoli spettacolari che sostituiscono improbabili alberi in un deserto fiammeggiante. Negli anni ’80/90 del secolo scorso, ma anche prima, in questo deserto americano si giravano film western. Diventata una location troppo costosa fu sostituita da località marocchine similari per colori e paesaggi: ma per chi è stato lì, la Monument Valley è insostituibile. Per noi europei, grazie a quei film, il conflitto tra americani e nativi sembrava un’avventurosa epopea. Solo recentemente percepiamo che quello sterminio fu reale con numerose vittime soprattutto nativi. Da molto tempo ormai coloro che non si sono convertiti all’Amerika, vivono nelle riserve consumando per la maggior parte vite povere, senza troppe speranze. Per l’essenzialità del vivere gli indiani passavano per ingenui, col senno di poi si è capito che erano veri ecologisti e pacifisti, come si direbbe ora. La revisione storica di quello che è accaduto ai popoli indi ha compiuto una svolta epocale, i bianchi hanno ammesso le loro colpe in diverse occasioni.
Se si vuole approfondire la conoscenza dello spirito del “pellerossa” scopriamo una profonda cosmogonia legata alla natura. Le difficoltà di procurarsi cibo per la sopravvivenza ne forgiò il carattere. Fonte principale del loro sostentamento era il bisonte: divenuto il Grande Spirito, il Dio del creato, parte di un mondo armonico che il giovane pellerossa s’impegnava a conoscere durante il ritiro nel silenzio della natura: dall’alto di una roccia, affacciato su un paesaggio incantato e struggente s’immedesimava in quella vastità inesplorata per conciliare l’unione sacra dell’individuo con l’Essere Supremo, l’invisibile. La parola non poteva esprimere la grandezza della creazione, il silenzio era d’obbligo. Finita l’iniziazione il giovane tornava tra gli uomini trasformato. La sua esperienza personale restava il suo segreto fino alla morte. I nativi avevano stabilito contatti spirituali con il mondo animale fatto di rispetto e ammirazione. Le famose caccie ai bisonti che praticavano per la sopravvivenza non eccedevano mai il loro fabbisogno e tenevano conto del periodo riproduttivo degli animali. Nel 1890 si capì che il bisonte delle prateria stava diventando un animale raro a causa dell’incondizionata strage che ne avevano fatto i bianchi per rendere più difficile l’approvvigionamento di carne ai pellerossa. Epica fu la strage di bisonti perpetrata da Buffalo Bill per conto della ferrovia Union Pacific al solo scopo di intrattenere i passeggeri dei treni, con la scusa che gli operai addetti alla costruzione dovevano pur nutrirsi. Dell’animale mangiavano solo la lingua e ne vendevano le pelli. Fu così che dei 60 milioni di capi stimati nel 1830 rimanevano solo 900 mila nel 1890. Anche l’aquila era sacra, le si riconoscevano forti poteri sull’Universo, quelli che tutto il mondo sciamanico riconosce a questo elegante volatile. Sacro era per loro il cerchio che include i quattro punti cardinali, i lati dell’essere vivente, i quattro popoli. Il tipi era la loro tenda-casa conica fatta di pelli e corteccia di betulla. Di tutto questo ci parla Charles A. Eastman nel libro “L’anima dell’indiano”. Lui indiano sioux cresciuto negli anni in cui si perpetrava il tragico sterminio della sua gente, laureatosi in medicina all’Università di Boston, lottò tutta la vita nel tentativo di far capire ai bianchi il suo mondo. I conflitti tra bianchi e indiani erano guerre di conquista di territori a scapito degli abitanti storici. Ricordiamo il massacro di Sand Creek, cantato da De André del 1864, e l’ultimo, il più cruento del 29 Dicembre 1890 perpetrato nel torrente di Wounded Knee, un terribile massacro di donne e bambini Lakota (vuol dire gente comune) e Sioux Oglala riuniti lì per la danza degli Spiriti, un movimento spirituale che prometteva agli indiani di restituirgli il Paese com’era prima dell’arrivo dell’uomo bianco. Una storica cavalcata “per non dimenticare” fu realizzata nel 1990. Su Wounded Knee si può vedere il film “l’ultimo pellerossa” di Yves Simoneau.
La cinematografia ha cominciato a raccontare episodi storici in modo realistico non più western. In occasione di un viaggio nei parchi Nazionali Americani vi consiglio di rivedere i film più famosi dalla parte degli indiani, sarà un modo più consapevole di entrare in quel paesaggio così vasto e così unico. Vi ricordo i più belli (almeno per me): “Piccolo grande uomo” di Arthur Penn, “Soldato blu” di Ralph Nelson, “Un uomo chiamato cavallo” di Elliot Silverstein e per finire “Balla coi lupi” di Kevin Costner. (testi e foto di Gabriella Pittari)
Approfondite leggendo di John Williams, “Butcher’s Crossing“
e di Nattachee Scott Momaday “Il viaggio a Rainy Mountain“