Le isole che non c’erano
Vi racconto un viaggio in un luogo impossibile, irreale, ma esistente. (Gabriella Pittari)
Le isole che non c’erano si trovano nell’oceano Pacifico: sono trasparenti come delle gigantesche meduse, bisogna conoscere la loro esistenza per trovarle, sono basse, al pelo dell’acqua, sono le isole della “zuppa di plastica” (Pacific Trash Vortex), divise in due dal vortice del nord pacifico. Butti in mare una bottiglia di plastica, te la ritrovi dopo sei anni a far parte dell’isola.
L’esploratore involontario che le ha scoperte è l’americano Charles Moore, figlio di un petroliere, che nel 1997 durante una competizione di yatch da Los Angeles alle Hawaii, s’imbatté in una pazzesca estensione di spazzatura di plastiche e di residui petroliferi. Il giovane ereditiere, folgorato dalla scoperta, vendette l’azienda di famiglia e si dedicò allo studio e alla localizzazione di quelle isole, formatesi un po’ alla volta dagli anni ’50 del secolo scorso.
Lo studio portato avanti da Charles Moore per più di 10 anni ha dato i confini a quella massa incredibile, a quel mostro marino che si compone di almeno 100 milioni di tonnellate di plastica divisa in due blocchi, uno un po’ più ad est delle Hawaii, l’altro più vicino al Giappone. Messe insieme le isole hanno un’estensione di 2500 km di diametro con una superficie stimata quasi uguale a quella della Comunità Europea. Le isole non hanno vita propria, ma sono in grado di togliere la vita agli uccelli, ai pesci, ai cetacei; saranno in grado di modificare la vita degli uomini, se non si porrà rimedio. “Zuppa di plastica” è la definizione dei biologi marini. Un quinto di quei rifiuti provengono dalle navi e dai pozzi petroliferi, il resto dalle coste dell’estremo oriente e dal Nord America, la loro formazione è in continua evoluzione ed è previsto che raddoppi nel corso di un decennio. Da questo punto di vista sono un’entità vivente, un enorme animale marino imprendibile e inarrestabile, un mostro da fantascienza. Il “settimo continente” ha dieci metri di profondità, a causa della sua trasparenza, è poco individuabile dallo spazio, ma molto visibile dalle imbarcazioni. Tutta quella plastica concentrata mischiata a prodotti petroliferi scartati dalle navi o da incidenti, provocano la frantumazione in monofilamenti di polimeri incrostati di plancton e diatomee, che favoriscono la riproduzione di un emittero, (lhalobate sericeus) un predatore di zooplancton e di uova di pesce che concorre allo squilibrio dell’ecosistema. Una statistica dell’ONU del 2006 calcolava che un milione di uccelli marini, 100 mila pesci e mammiferi marini sono morti a causa della plastica, che scambiano per meduse, plantonici di cui vanno ghiotti e si strozzano soffocando in una morte orrenda. All’incremento dell’estensione delle isole ha contribuito il maremoto del Giappone dell’11 marzo 2011, trasportando in mare una quantità incredibile di rottami, che, dopo aver vagato sulle coste americane e giapponesi si é diretta nel vortice subtropicale del Nord Pacifico approdando alle isole.
Un ragazzo olandese Boyan Slat di diciannove anni ha inventato un marchingegno (Ocean Array Cleanup) per ripulire il mare dalla zuppa di plastica senza danneggiare l’ecosistema. Per risolvere il problema ha raccolto un milione di dollari in 40 giorni, un numero biblico! Per conoscere il marchingegno che propone, si può andare sul sito
http://www.theoceancleanup.com/?gclid=CNSFv5PQxcICFeKWtAodjTAAYA
Speriamo che i nostri mari riescano a liberarsi di tutta quella plastica e che le isole che non c’erano scompaiano nel nulla come una bolla di sapone. (Testi di Gabriella Pittari immagini prese da internet)
“Tu chiedi donde viene il nostro alito di vita.
Se si potesse riassumere una storia troppo lunga,
Direi che esso sorge dalle profondità dell’oceano,
Poi all’improvviso l’oceano nuovamente s’inabissa.”
(Omar Khayyam)