C’era una volta nel cuore della Birmania una foresta come tante altre, quando nel III secolo a.C. in quella foresta incontaminata cominciarono ad arrivare, inviati dal re Ashoka dell’India, molti monaci buddisti per diffondere la fede.
Venivano anche in cerca di un luogo solitario dove astrarsi dal mondo terreno e dedicarsi alla ricerca metafisica di quel dio nascosto dentro di se a cui dedicare tutta la vita per uscire dal ciclo delle reincarnazioni e raggiungere il Nirvana, dove tutto si annulla nell’universale. Nel corso dei secoli gli alberi furono sostituiti da un gran numero di pagode, diverse e simili a seconda dell’estro dei fedeli e del danaro investito dai committenti.
Bagan divenne un bosco di pagode da lasciare incantati, di templi che ipnotizzano alla luce del mattino e ai tramonti della sera. Naturalmente le pagode erano molte di più di quelle che possiamo vedere ai giorni nostri perché il tempo, gli avvenimenti storici, i terremoti e gli uomini modificano in continuazione il paesaggio, ma la foresta di pagode di Bagan suscita ancora nel visitatore un’emozione irripetibile. Bagan nel tempo diventò il regno di una popolazione d’origine dravidica (proveniente dal sud dell’India) i Mon che nell’VIII secolo fondarono la città in posizione strategica sul fiume Irrawaddy alla confluenza con il Chindwin. Intorno al IX secolo scesero dal Tibet i birmani.
L’età dell’oro della città si consolidò nel 1056 con la conquista di Thaton da parte del re che trasferì a Bagan i principali studiosi, sacerdoti, artigiani, scultori, facendoli suoi prigionieri per sfruttarne le capacità artistiche. Marco Polo é stato il primo occidentale a citare la Birmania, che attraversò costeggiando il Champa nel 1285 nel suo ritorno dalla Cina, solo due anni prima dell’invasione mongola di Kubilai Khan che stese un’ombra sinistra sulla città già piena di vita.
Della foresta architettonica di Bagan fanno parte numerose stupa (i reliquiari per custodire piccoli resti di asceti), tutti di foggia diversa frutto dell’apporto culturale di indiani, singalesi, indonesiani, cambogiani e tibetani. Ormai tutta la Birmania meridionale era buddista Hinayana (il piccolo veicolo) dottrina che i monaci studiavano sui libri sacri giunti dalla città di Thaton con il monaco Chi Arahan. Molti sono i templi-pagoda, domina su tutti la Shwezigon dove sono custoditi un osso frontale di Buddha e un dente, reliquie che secondo la leggenda furono portate a Bagan in groppa ad un elefante bianco. Su cinque terrazze quadrate si alza una torre a campana coperta d’oro splendente sotto i raggi del sole. Il tempio che é la trasposizione simbolica del monte Meru della mitologia indiana, é circondato da 37 nat, gli spiriti ancestrali dei luoghi, così cari ai birmani.
Tra gli edifici spicca per bellezza il tempio di Ananda considerato l’esempio più maestoso dell’architettura mon, risalente al 1091. Il suo nome originale si pensa fosse Ananta Panna (saggezza infinita) ispirato al Tempio Nandamula in Himalaya che si tramutò in Ananda, il nome del principale discepolo di Buddha. Una guglia dorata si alza da cinque terrazze cubiche in un crescendo che in facciata presenta un doppio ordine di finestre scandite da colonne. La forma é una croce greca. Quattro portali, uno per ogni punto cardinale, immettono al santuario dove su ogni lato del cubo si alza una statua colossale di Buddha. L’effetto é di magistrale naturalezza nonostante l’incredibile quantità di particolari che si armonizzano tra trafori e decorazioni a stucco delle colonne.
All’interno delle terrazze i corridoi concentrici per la deambulazione rituale sono coperti da alte volte ad ogiva. L’eleganza della struttura ha interni bui densi di drammaticità e di mistero dove la luce penetra come indirizzata dalla maestà del luogo. Speciali sono i racconti jataka dei bassorilievi che narrano le precedenti esistenze del Buddha, un misto di allegoria e racconto popolare che sono sia in forma di affreschi ma anche in terracotta e ceramica smaltata una particolarità artistica di Bagan, toccante per la sua ingenuità, quell’ingenuità che si riscontra in diverse stupa dove i Buddha colorati di rosso ricordano nel fisico i monaci del tempo perduto.
L’elemento decorativo più popolare di Bagan é per antonomasia l’orco che rigurgita collane di perle. Bagan ha la sua stele di rosetta nella Pagoda Myazedi nella quale si trova una delle due colonne quadrangolari fatte incidere nel 1113 d.C. iscritta in tre lingue: mon, pyu e birmano. Nel tempio di Sulamani si afferma il definitivo trionfo dello stile architettonico birmano con il suo trono della Sala Ancestrale dove i re rendono omaggio ai loro antenati. Sono scomparsi gli interni bui, la luce filtra dalle ampie finestre, gioca sulle superfici bianche. Ci si aggira alla scoperta di questi capolavori sia a piedi che in carrozzella, seguiti da belle bambine con i volti dipinti di khanaka, la crema di legno di sandalo che disidrata la pelle e non la fa abbronzare.
Quando scende il tramonto lasciamo la foresta incantata e attraversiamo il villaggio Taung-bi tra colorati mercati di frutta e verdure per vedere il magnifico monastero di legno Nat-Taung immerso tra gli alberi. Un vero capolavoro d’intaglio, il più antico della Birmania.
La zona di Bagan é un mondo all’apparenza sereno mentre anche nei monasteri si lotta contro un’inflessibile dittatura militare. (testi e foto di Gabriella Pittari)