La fondazione di Pegu risalirebbe al VI sec. d.C. ad opera di due fratelli di etnia Mon: Thamala e Wimala, il Romolo e Remo della Birmania.
La città sopravvisse all’invasione mongola, fu capitale nel 1364, e di nuovo all’inizio del XVII secolo, favorita dal commercio del suo porto sul fiume omonimo. Arriviamo a Pegu attraverso uno splendido paesaggio modellato dai monsoni. Ci fermiamo impressionati davanti al gigantesco Buddha sdraiato risalente al X secolo d.C. Un solo dito mignolo della sua mano misura tre metri, ne invidiamo la serenità, il sorriso enigmatico, che sottolinea la raggiunta pace nel Nirvana, e ci piace nonostante il recente maquillage.
Altri quattro enormi Buddha alti 30 metri sono seduti a fiore di loto affiancati, uno per ogni punto cardinale, sono la rappresentazione classica di Gauthama Sakiamuni, principe di Lumbini ( in Nepal) arrivata con i monaci pellegrini da Sri Lanka: ha le orecchie allungate che toccano le spalle, perché era nobile e portava pesanti orecchini, ha tre segni orizzontali sul collo perché era saggio, ha i capelli raccolti in una crocchia, simbolo dell’illuminazione. Le statue che vediamo hanno acquisito un aspetto popolare, sono ammodernate, ridipinte nonostante le antiche origini. E’ quello che é successo anche a molte nostre chiese, nessuno si salva. La pagoda d’oro a campana è un classico di grande importanza.
Nel 1757 il re Alaungpaya, fondatore della dinastia birmana Kongbauan saccheggiò Pegu e la distrusse mettendo fine all’indipendenza dei Mon. Nel 1853 fu annessa all’India britannica che protesse i Mon permettendo la loro sopravvivenza. In seguito i terremoti s’accanirono sulla località, il fiume cambiò il suo corso decretandone la definitiva decadenza.
La seconda città del Myanmar é Mandalay, fondata nel 1857 sul fiume Irrawaddy dal re Mindon; rimase capitale fino all’occupazione britannica nel 1885. La tradizione vuole che la collina di Mandalay fosse stata visitata da Buddha con il suo discepolo Ananda, per questo la città é ritenuta centro del sapere buddista, é quindi anche centro culturale e commerciale per antonomasia dove prosperano gli artigianati tipici della nazione soprattutto tessili e la lavorazione del legno di teak.
L'abitato di Mandalay si estende intorno alle mura quadrate che delineavano il sacro recinto dei templi con al centro il Palazzo Reale, quello che Amitav Ghosh fa protagonista del romanzo “Il palazzo degli specchi”. E’ un’opera d’arte il monastero Shwenandaw, intarsiato nel legno di teak, fitto di sculture che propongono racconti di induismo e buddismo come episodi di vita reale.
Nel tempio Maha Muni (grande saggio) i fedeli aggiungono per devozione foglie d’oro puro alla statua del Buddha ormai deformata da quel suggestivo rito. La statua di bronzo fu portata via con la forza dalla regione dell’Arakan. E’ così preziosa e antica che si tramanda che fu lo stesso Sakiamuni a trasformarla con il suo soffio vitale in se stesso. In realtà é una delle cinque statue di Buddha più antiche del mondo: il buddismo si diffuse nell’Arakan intorno al I secolo d.C.
Al mattino seguiamo con tenerezza il vagare dei monaci con le loro ciotole di lacca per raccogliere il riso che i cittadini donano per il pasto di mezzogiorno: un’antica tradizione del sud est asiatico.
Nei monasteri di Mandalay, sono avvenuti di recente i più accaniti scontri tra i militari del regime e i monaci che come un fiume rosso in piena hanno percorso le vie cittadine decisi a pretendere dei cambiamenti, immancabilmente repressi nel sangue. Ricordo bene la prima volta che andai a Mandalay restai impressionata alla vista dei carcerati che lavoravano con i ceppi alle caviglie.
Lo stupa Kuthodaw sulle colline è al centro di tre quadrati che racchiudono il più grande libro del mondo: consiste di 729 “pagine” di marmo con incisi i canoni del buddismo Therevada in lingua pali (l’antica lingua franca dell’oriente), protette dai monsoni dentro piccole stupa. Si possono “leggere” entrando in quel biancore da illuminazione. Con il battello si va a vedere in riva all’Irrawaddy la pagoda Mingun, la cui costruzione fu abbandonata per la mania di grandezza del suo ideatore: si spaccò.
Circondata di fronzosi tamarindi abbaglia di bianco l’originale pagoda Hsinbyume, un crescendo di sette giganteschi cerchi ondosi che salgono verso l’alto abbracciando l’edificio simbolo del mitico monte Meru della tradizione induista.
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Sulle rive dell’Irrawaddy ferve la vita contadina, i bufali si riposano dopo aver arato i campi.
Testi e foto di Gabriella Pittari, Fine seconda parte, segue. Leggi Myanmar PRIMA PARTE: Myanmar, le vere radici del sud est asiatico