Se il paesaggio non é strepitoso in compenso lo sguardo ravvicinato è pieno di cose da ammirare, soprattutto la gente.
I rajasthani sono belli sia gli uomini che le donne nel loro abbigliamento diverso da quello tradizionale degli altri Stati indiani. Partiamo presto, il tragitto è pieno di incognite dato che i camionisti indiani percorrono le strade in un modo a dir poco pericoloso. Il viaggio è attraente e variegato. Attraversiamo diversi villaggi. Le donne decorano le soglie delle case con l’acqua bianca del primo riso della stagione, un’arte propiziatoria per augurare buona fortuna alla famiglia. Al centro del cortile non manca mai una pianta sacra di tulsi, il basilico, che assicura l’amore della coppia. Tulsi identifica Lakshmi, moglie del dio Vishnu, dea della bellezza e della fertilità. E’ sempre un piacere vedere i pavoni circolare come uccelli domestici. Quando sono sui tetti le loro piume dalle sfumature color petrolio brillano ai raggi del sole: i loro versi sono impressionanti, sembrano urla di neonati.
Vediamo villaggi di diversa tipologia, abitati da famiglie povere, non si capisce di che vivano, le donne sono belle, giovani con attorno i loro bambini, si ritrovano ai pozzi per prendere l’acqua e fare quattro chiacchiere, percorrono aridi sentieri per raccogliere la legna per cucinare. Brocche e legna le portano sulla testa come mannequin del deserto. C’imbattiamo in un matrimonio di campagna, triste, nonostante la bellezza delle scene. Si attraversa una zona brulla fitta di acacie e tamerici, pochi alberi, molta siccità, gente che percorre la strada a piedi o in bicicletta, qualche camion, qualche moto, cerchiamo di capire come si possa vivere così a contatto con la polvere.
Dopo diverse ore ecco un miraggio, un’apparizione si materializza all’orizzonte in tutto il suo splendore: la città fortificata di Jaisalmer, l’ammiriamo nella sua ampiezza. Una muraglia di sabbia gialla avvolge un abitato rinforzata da potenti torrioni merlati. Questa è la nostra meta della sera, ai bordi del deserto. Ci fermiamo alla periferia a rendere omaggio agli antenati reali, ai cenotafi, una serie di tempietti che custodiscono tavolette in arenaria gialla con figure di dei o di antenati, di una bellezza completamente diversa dai canoni della nostra arte funeraria.
Sembrano di sabbia indurita pronti a disfarsi al primo alito di vento avvallando la futilità della vita e la certezza della morte, mentre un tramonto “orientale” avvolge Jaisalmer in veli prima gialli, poi arancioni, infine violetto, prima di spegnersi nelle effimere sabbie del deserto. Da questo basso orizzonte la cittadella si presenta come un castello medievale mimetico nel paesaggio, affacciato sull’abitato che si è andato ampliando ai suoi piedi. La prima sensazione che provo è che siano le persone comuni a difendere il castello dal basso. Entrando scopriamo che ci sono due cinta di mura. La città bassa ha le porte e risale al 1750 al suo interno diversi templi jain e graziose case popolari. Nella città alta una serie di haveli di sabbia in filigrana, diversi da quelli conosciuti nello Shekawati, sono schierati come pizzi inamidati uno affianco all’altro e uno di fronte all’altro.
Erano le abitazioni dei ricchi mercanti del ‘700, il periodo più fiorente per il commercio delle spezie attraverso il deserto del Thar. Palazzi sorti da una competizione tra gente arricchita che voleva dimostrare la sua potenza. Strano che il vento non li abbia dissolti. Sono palazzi intricati pieni di balconcini che nel disegno replicano la foggia delle carrozzelle tradizionali e nella pianta ricalcano quella della casa rajput, dove gli ambienti sono divisi in zona per le donne, zenana e per gli uomini, mardana. Le finestre sulle facciate sono piccole e tante per far entrare poca luce ma far girare l’aria.
Sempre più raramente s’incontrano i nomadi i Gadhuliya lohars, genti di un clan rajput che combatteva contro i Sesidia, di Chittorgarth, in seguito sottomessi dai Mogol di Akbar. In quell’occasione avevano giurato di essere nomadi finché i mogol non avessero lasciato la città, ma dato che questo non avvenne, loro sono diventati nomadi e, a quanto pare, per sempre. Sono fabbri specializzati nel riparare attrezzi da lavoro, li vediamo sui loro splendidi carri di cuoio borchiati. Si accampano ai limite del deserto e vivono nei carri che posizionano a due a due a formare una “capanna” dove tutta la famiglia si sistema per la notte. Si spostano portando con se tutto quello che hanno, polli, animali domestici e i buoi per trascinare i loro pesanti carri che hanno ruote di legno pieno. All’alba partono verso i villaggi agricoli. Guardando i carri allontanarsi si percepisce la fatica dei gobbuti buoi indiani che si muovono lentamente emettendo un gemito di animali feriti, accompagnato dallo stridore delle ruote: davvero impressionante.