Bukhara “la nobile” (prima parte)
Samarcanda è la città “persiana” nel deserto, Bukhara un miraggio medievale.
Che fai tu luna in ciel? dimmi che fai,
Silenziosa luna?
Sorgi la sera, e vai
Contemplando i deserti, indi ti posi.
Ancor non sei tu paga
di riandare ai sempiterni calli? (G. Leopardi)
Perfino Leopardi rimase affascinato da Bukhara, senza averla mai vista, dopo aver letto l’articolo del Barone Meyendorff, “Viaggio da Orenburg a Bukhara” (datato 1826). Samarcanda è la città “persiana” nel deserto, Bukhara un miraggio medievale. Siamo entrati a Samarcanda sulle tracce dell’ambasciatore spagnolo Ruy Gonzales de Clavijo, ora raggiungiamo Bukhara seguendo il pellegrinaggio dello studioso ungherese Armunius Vanbéry, che travestito da derviscio (mendicanti di una setta islamica persiana), percorse l’itinerario più pericoloso del suo tempo, partendo il 28 marzo 1863. Scopo di Vanbéry era verificare sul campo la sua ipotesi sull’affinità fra i dialetti turco-tatari dell’Asia Centrale e la lingua magiara. L’ungherese appartiene al ceppo altaico, oppure discende da un ramo tartaro o addirittura dal finnico? Questo è quello che voleva verificare Vanbéry con il suo viaggio. Il travestimento serviva a sopravvivere. Tutta l’area geografica che ora è l’Uzbekistan, nell’antichità professava, la religione zoroastriana, ma anche il buddismo, come dimostra l’etimologia di Bukhara derivato da Vikhara, il nome sanscrito dei monasteri buddisti: Bukhara era anche un luogo di pellegrinaggi religiosi.
Quando Vanbéry compì il suo pellegrinaggio, quella zona della via della seta era al centro del “Grande Gioco”, quell’incredibile sfida tra Gran Bretagna e Impero Russo per il possesso, o per lo meno l’influenza politico-economica, sull’Asia Centrale. Il “gioco” era piuttosto sanguinario; i più feroci erano gli emiri di Bukhara e i khan di Khiva.Il viaggio di Vanbéry è caratterizzato dalla fede islamica, quello di De Clavijo dalla fede cristiana: tra i due viaggi sono trascorsi più di 400 anni.
Per entrare a Bukhara non si attraversano più le antiche mura di fango, ma la città è rimasta in gran parte un’oasi con le cupole dei mercati color sabbia e i quartieri di case bianche. Già da lontano tra i campi di cotone si vede spuntare l’alto minareto Kalian, il faro dei naviganti del deserto. Il minareto si erge nella parte più tipica della città carovaniera dove si fronteggiano due moschee: la Masjed Kalian e la Miri Arab. Entrando sotto l’alto portale (iwan) della Kalian, ci si trova nella quadrangolare moschea all’aperto, a quattro iwan. Il portale inquadra la fontana ottagonale e il grande gelso, al centro del cortile; la fontana, ormai è solo un ornamento, ripete la forma della cupola della Roccia di Gerusalemme. Attraversando il cortile si arriva alla moschea il cui mihrab (la nicchia rivolta alla Mecca) é un notevole pezzo d’arte, capace di distrarre i fedeli dalla preghiera. Il restauro della cupola celeste, ha cacciato definitivamente le cicogne dalla città. Una vecchia profezia diceva che la vita sarebbe finita a Bukhara, se l’ultima cicogna abbandonava il suo nido. Forse non è andata così solo perché sono stati gli uomini a cacciarle. Dall’alto dell’iwan la vista spazia su un panorama familiare di case dai tetti piatti degli antichi guzar, i quartieri in cui era divisa la città, case che sembrano labirinti. Tra le strade di uno di questi guzar, si alzano quattro minareti azzurri, è l’originale moschea Chor Minar (quattro minareti).
Il mausoleo di Ismail Samani del X secolo, di una dinastia persiana, é un gioiello d’incastro di mattoni cotti al sole, assemblati con latte di cammella e tuorlo d’uovo, sicuramente il più illustre predecessore del lego. Sia all’esterno che all’interno, secondo come cade la luce, si disegnano geometrie spaziali con diciotto diverse combinazioni, legate al calendario astronomico e astrologico: la cupola emisferica rappresenta l’universo: un vero capolavoro, conservatosi grazie alla sabbia che lo eclissò per diversi secoli. Si trova in un parco pubblico che fu un immenso cimitero, smantellato in epoca sovietica. (Gabriella Pittari)