Perù, Il lago Titicaca
Sembra di attraversare un enorme contenitore di tintura tanto è uniforme il colore blu, scalfito solo dalla barca a motore che crea onde della stessa “tintura”.
La nuova cartolina dal Perù la spediamo dal lago Titicaca, lo specchio d’acqua navigabile più alto sul livello del mare (3812 m). Il suo nome deriverebbe da Inti il sole (in quechua) e kjarka, masso rupestre (in aymarà), decisamente più suggestiva è una seconda ipotesi la cui traduzione sarebbe: puma di pietra. Dal lago Titicaca, più vicino al cielo che al sole, arrivarono a Cuzco inviati dal dio Inti, i fondatori mitici del popolo inca, la coppia Manco Capac e sua sorella, nonché sua sposa Mama Oclio. Arrivati sul luogo il bastone magico che portava Manco Capac cadde a terra e loro sprofondarono nella Pacha Mama, la Madre Terra: segno divino che indicava dove fondare la città di Cuzco. Manco Capac è considerato il primo mitico imperatore inca. Il Titicaca è quindi sacro, ma lo sarebbe comunque, perché la sua bellezza è divina, la trasparenza delle sue acque e la sua luce, sono ineguagliabili. Le montagne che lo circondano sembrano ravvicinate, tutti effetti magici che si possono godere se si ha la fortuna di essere sul posto. Nel lago ci sono 34 isole quasi tutte abitate. A sud del Titicaca, si stabilì la popolazione aymarà artefice della civiltà di Tiahuanaco, che ha lasciato un’indelebile traccia di sè nelle rovine megalitiche sparse sulla fredda pianura battuta dai venti dei 4000 m. La città morta di Tihauanaco (ora in Bolivia) fu il luogo in cui secondo la mitologia inca, il dio supremo Viracocha avrebbe forgiato gli uomini traendoli da un modello scolpito nella pietra. Ed è su quell’altipiano boliviano, la puna, dove gli uomini si rifornirono della pietra basaltica e dell’arenaria con cui costruirono Tiahuanaco. Resta inspiegabile capire come abbiano fatto a trasportare un materiale così pesante senza l’uso della ruota. Cala la sera sulle sponde del lago, la croce del sud è padrona del cielo, diventa il simbolo inconscio di quanto hanno sofferto gli indios; una condanna divina. “Il cielo sembra quello di un planetario, con le costellazioni nitide, come su un diagramma...”. (Cristopher Isherwood in Il condor e le vacche). All’alba si parte per conoscere gli uros (vuol dire “mai domati”), un’antica popolazione di pescatori che vive nel lago sulle isole di totora, una canna del lago, con cui hanno costruito le isole fluttuanti. Su queste poi le loro abitazioni e le fantasiose barche, le balsas, a forma delle gondole. Il viaggio sul lago dura 40 minuti e si effettua al centro in un corridoio creato nell’acqua. Sembra di attraversare un enorme contenitore di tintura tanto è uniforme il colore blu, scalfito solo dalla barca a motore che crea onde della stessa “tintura”. E’ uno spettacolo! All’arrivo nella baia Chucuito s’avverte una certa delusione e un senso di profonda tristezza: gli uros (estinti nel 1958) ora imparentati con gli aymarà, sembrano attori che giocano una parte ad uso turistico, in un ambiente misero, ma così inusuale per noi, tanto da guardarsi attorno con curiosità nella speranza di scoprire qualcosa che non suoni falso. E’ piacevole camminare sulla morbida totora color miele che odora di paglia. Le donne vendono grossolani tappetini di lana ricamati, che rappresentano villaggi e mercati, i turisti li comprano; è un modo per aiutare gli uros a sopravvivere, almeno questo è quello che pensiamo noi occidentali. Il viaggio prosegue, ora e mezza, verso l’isola di Taquile. Vive qui un gruppo quechua di 365 famiglie, organizzati in un ayllu, cioè comunità rurale incaica, dove la terra è collettiva. In quest’isola gli uomini lavorano a maglia e all’uncinetto, e le donne coltivano la terra. Le “signore” vestono vistose gonne da bambola arricciate e sovrapposte, di diversi colori che indossano nei giorni di festa: in testa portano cappelli-pizza multi-piumati, arricchiti di nastri variopinti. Anche quest’isola sperduta, come un grande masso in mezzo al lago, sembra fluttuare, ma l’impressione, è dovuta all’altezza. Sembra disabitata. Per vedere il villaggio dall’altro lato, si devono salire 500 gradini, poi con una gradevole passeggiata tra muretti di sassi dove si possono incontrare pastori con le alpaca, si arriva all’arco dietro il quale appare la bianca chiesetta incorniciata dall’arco. Sulla piazzetta gli uomini, che indossano orgogliosi le loro chullo, (copricapo di lana colorati e disegnati) sono sempre intenti a lavorare a maglia. Nella piccola trattoria “turistica” preparano un sobrio pasto a base di ortaggi e carne, di loro produzione. I copricapo si possono acquistare, a caro prezzo, presso lo spaccio che incassa per la comunità intera. Tutta la vita di questa gente ha un ritmo lento e familiare, che invidiamo senza troppa convinzione, abituati come siamo alla velocità consci che per noi questo è solo un intervallo che ci prendiamo a beneficio della conoscenza. Dopo il pasto si deve lasciare velocemente l’isola, perchè se si alzano “certe onde” diventa impossibile navigare. Anche qui il turismo sta prendendo piede, ma gli abitanti sembrano indifferenti all’invasione dato che, quasi sempre, è di breve durata. (Gabriella Pittari)